I due rami della mia filosofia

L’Essenzialismo o la natura naturans (l’essere, indipendente dall’uomo). Verità logica.

L’essenzialismo è la concezione dell’infinito non come Àpeiron, indefinito, indistinto, indeterminato: placenta da cui nascono e in cui si dissolvono tutte le cose; ma come infinita creazione bellezza potenza e splendore, che arriva a noi sottoforma di essenze divine; dunque l’infinito non come vuoto ma come pieno, anche se in quanto tale inaccessibile, impensabile e inconoscibile, salvo nella percezione antropomorfica. La natura conosce la qualità (le essenze), non la quantità (su cui si basa la scienza). Il sistema dell’atomo non differisce dal sistema solare e la sistole e diastole è la legge del cuore umano ma anche dell’universo. 

Da sempre l’umanità è in sé scissa. Oscilla tra l’affermazione e la negazione, l’esaltazione e la deprecazione della vita, la fede e la miscredenza, Dio e il nulla, il cosmo e il caos, il bene e il male.

Ciò dipende dal fatto che sul piano assoluto esiste una sola cosa, l’essenza; come dice Giordano Bruno: “l’essenza divina che è tutto in tutto, empie tutto ed è la più intrinseca alle cose che la essenzia propria di quelle, perché è la essenzia delle essenzie, vita de la vita, anima de le anime”, e invece negli esseri viventi ci sono due cose: eterogenee ma inscindibilmente intrecciate tra loro: l’essenza e le condizioni di esistenza (status existentiae). L’essenza è divina; le condizioni di esistenza sono, fin troppo spesso, diaboliche. Esse non fanno parte della realtà essenziale: esistono solo per le creature, come caos contro cui queste devono lottare per affermarsi, mantenersi ed accrescersi.

Questo “caos” è però solo la faccia rivolta verso di noi dell’infinita ed eterna potenza di Dio, è solo la nostra percezione antropomorfica di essa. Le condizioni di esistenza dipendono dalla posizione infinitamente subordinata dei viventi nella macroscopica struttura dell’Essere, come cellule dell’organismo universale sottoposte alle leggi dell’organismo e non alla loro legge individuale. L’Uno essenziale si frantuma o si moltiplica, attraverso il nostro intelletto, nella pluralità degli esseri, abbandonati alla vicissitudine esistenziale.

Essenza e condizioni di esistenza sono indipendenti l’una dalle altre; ma insieme contribuiscono a determinare l’atteggiamento degli individui rispetto alla vita e al mondo. A seconda, cioè, della prevalenza dell’una o delle altre, gli uomini assumono una posizione positiva o negativa, ottimistica o pessimistica, credente o miscredente. Si ha così quella miriade di posizioni, con infinite sfumature e contrasti, di cui la storia dell’umanità è costellata. Posizioni diverse e contrapposte si trovano anche nei singoli individui, magari diverse nelle loro diverse età. In Goethe per esempio, dedito con vita ed opere alla costruzione della statua fidiaca dell’uomo, alla trasfigurazione dell’umanità, troviamo d’altra parte malumore, rassegnazione, disperazione e senso dell’eterno vuoto (Leer, leer und immer leer!).

Dio è tutto e solo positivo, crea solo il bene, non il male. “Questo”, dice papa Francesco, “bisogna cercarlo da un’altra parte”. Ma se intende che il male lo creano gli uomini, allora ciò non è vero. Perché, a parte il fatto che molto male nella vita non dipende dagli uomini ma dalla natura, per esempio i disastri naturali, le epidemie ecc., gli uomini si trovano, sì, a fare il male, ma non sono essi a crearlo, lo subiscono e lo trasmettono, in quanto partecipi di una natura esterna e interna non creata da loro, di cui sono fatalmente tramiti e strumenti, come le onde, che ricevono la spinta da altre onde e la trasmettono ad altre onde ancora, Il male rientra dunque nelle condizioni di esistenza in cui gli uomini, abbandonati alle forze selvagge della natura, si trovano a vivere, sicché a farlo, anche attraverso di loro, è in definitiva sempre la natura.

 Noi siamo immersi, condizionati e fin troppo spesso oppressi dalla struttura mastodontica della natura naturata, in cui la natura naturans, l’Essere o Dio eterno e infinito, a noi inaccessibile e in sé privo di struttura, si trasforma continuamente per noi. Quanto più grande è Dio, tanto più piccoli siamo noi, e la differenza diventa, per la nostra dipendenza, il nostro male. Dunque la grandezza di Dio è il male degli uomini.

Secondo Pascal, senza la fede solo lo scetticismo vale, e con esso la macerazione nullificante del moi haïssable. Ma così non è. Fermo restando  lo scetticismo come reazione a una fede antropomorfica, mitologica e dogmatica; al di sopra dello scetticismo e sotto la calma della vita e dell’abitudine valgono la passione, la fede, la gioia, il giubilo, la voluttà, l’ispirazione, la dedizione, l’entusiasmo, esaltati proprio da quella filosofia che è una religione naturale di Bruno e Spinoza e sarà poi di Nietzsche. Questa filosofia o religione naturale fu da Pascal avversata a favore della obsoleta fede cristiana. Ma in questo caso l’esprit de finesse non supera l’esprit de géométrie: dipende da esso, come il cuore dipende dalla ragione. Se infatti il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce, è perché le sue ragioni sono le ragioni della specie, che la ragione ormai conosce.

In tal modo l’Essenzialismo riesce a una forma rinnovata e approfondita di parmenidismo, arricchito e illustrato da un’ampia fenomenologia, esposta nella trilogia composta da Il bue squartato e altri macelli (2012), L’oro prezioso dell’essere (2013) e Cortocircuiti (2014), e completata dal Codicillo dell’Essenzialismo: Grandi problemi risolti in piccoli spazi (2017). Questa fenomenologia comporta, come abbiamo visto, una radicale delucidazione del male (il bene è vivere secondo l’essenza divina originaria). Dal momento che esso non esiste sul piano assoluto, Dio non se ne occupa e non ne è responsabile. In Dio, infatti, non esistono il bene e il male, il vero e il falso, il bello e il brutto. Queste dicotomie presuppongono distinzioni e divisioni che in Lui non ci sono, in quanto Egli è, cusanianamente, una coincidentia oppositorum. Ma il male (negazione dell’essenza originaria) ben esiste, invece, per le creature, tutte create dalla potenza divina (non come dono o per amore, ma per emanazione), esiste come male avvolgente, orrendo, intrinseco, immutabile e irrimediabile, quale è denunciato, tra i filosofi, nel modo più efficace da Schopenhauer.

D’altra parte, qualcosa “che ci faccia godere in eterno di una continua e somma letizia”, come cercava Spinoza, che lo riponeva nell’abbandono di tutte le vane aspirazioni mondane a favore dell’amor dei intellectualis, nella vita non esiste ed è vano cercarlo. Con quelle parole Spinoza espresse solo la sua passione per la filosofia, da cui scaturiva la sua felicità, con abbondanza di frutti per l’umanità. La stessa serenità, che molti filosofi predicano come surrogato della felicità, è, come stato permanente, impossibile, perché, se non viene dal carattere, che è relativamente indipendente dalle condizioni di esistenza, può essere solo una conquista temporanea e precaria. Anche lo stoicismo, con la sua aspirazione a reggere alle avversità con l’atarassia, resta in definitiva un vano e faticoso conato. La nostra vita è costantemente minata dall’angoscia, causata dalla sua precarietà e caducità, che ci dà il capogiro del nulla. In nessun modo si può sfuggire al dolore e a una drammatica problematicità, alla vecchiaia, alla malattia e alla morte. Il male è dunque nella nostra vita incancellabile e ineliminabile.

Il male può venire per noi anche dal bene. Un esempio ce lo fornisce  la massima 1251 di Goethe:

La natura riempie con la sua sconfinata produttività tutti gli spazi. Consideriamo soltanto la nostra terra: tutto quello che chiamiamo cattivo, infelice proviene dal fatto che essa non può dare spazio a tutte le creature, e ancor meno può conferire loro durata.

Qui il male è dunque il rovescio della medaglia della illimitata potenza creativa dell’esse sive natura. Nei viventi, negli uomini, le due cose, una esistente in Dio o Essere e l’altra non esistente in Dio o Essere, sono entrambe esistenti e indistricabilmente intrecciate, con infinite modulazioni e contemperamenti, in cui il male (la grandezza), generalmente prevale sull’essenza (la piccolezza). Ciò non toglie l’appartenenza di tutte le creature all’Essere divino, all’Essere che è divino, con la sua assoluta e beatificante positività. Il senso – etico e religioso – della vita sta nel lottare, aiutati o no dalla fortuna, per l’essenza a cui apparteniamo, nell’aderirvi tenacemente contro le avverse condizioni di esistenza. È questo il pólemos eracliteo che agita il mondo e le sue creature, è questa la Volontà di vivere (Wille zum Leben) cieca, irrefrenabile e onnipotente di Schopenhauer, è questa la indomabile e insaziabile Volontà di potenza (Wille zur Macht) di Nietzsche, che fanno cozzare tra loro perpetuamente i viventi, “come pentole sulla corrente di un fiume” (Goethe).

Dunque l’Essenzialismo è una visione di pienezza: del macroantropo e del microcosmo, di tutto il positivo e di tutto il negativo e del loro intreccio indissolubile in noi e per noi (per tutti i viventi). È questo, fra l’altro, che dà la stura alle opere d’arte, le quali trattano di tale intreccio in contemperamenti sempre diversi. L’Essenzialismo si presenta pertanto come una fenomenologia dell’Essere in quanto bene e male, vero e falso, bello e brutto.

  2) L’Organicismo o la natura naturata (il divenire, dipendente dalla percezione umana dell’Essere o  natura naturans). Verità empirica.

L’uomo è un organismo. E poiché in un organismo non c’è e non può esserci niente di inorganico, ogni parte e particella di esso è a sua volta un organismo; tutto ciò che vi entra lo diventa e tutto ciò che ne esce lo rimane. Tra le cose che escono dall’uomo, nel senso di essere da lui prodotte, secrete, c’è il pensiero. Esso si pone, noi lo poniamo, come libero e indipendente, cioè come neutro. Invece è a sua volta un organismo, dipendente da tale sua natura e dunque non libero. Questa sua natura trapassa in tutte le cose pensate. Esse vengono assimilate, come gli alimenti che  ingeriamo e digeriamo, e diventano a loro volta, come parti di un organismo, organismi. Quindi Spinoza può dire: “le idee che abbiamo dei corpi esterni indicano più la costituzione del nostro corpo che la natura dei corpi esterni”. E Nietzsche: “È sufficiente considerare la scienza un’umanizzazione il più possibile fedele delle cose; noi impariamo a descrivere in modo sempre più preciso noi stessi, quando descriviamo le cose e la loro successione”.

L’organicità è così la forma ultima, necessaria e onnicomprensiva del pensiero della realtà. È il manto antropomorfico che avvolge, senza buchi, tutto l’uomo e il mondo dell’uomo. Entro questa forma e questo limite c’è l’uomo e c’è ciò che non è l’uomo, la “natura”, cioè tutto ciò a cui l’uomo estende la propria unità, tutto ciò che egli attira nella propria unità e che unifica con se stesso. Noi non ce ne rendiamo conto perché siamo fatti per pensare le cose e il mondo e saltiamo automaticamente la base da cui partiamo, come fa l’occhio, che vede le cose ma non vede se stesso e la propria interna struttura, da cui la vista dipende. Quando pensa le cose, l’uomo le pensa tramite se stesso, cioè pensa in via immediata se stesso, e solo in via mediata le cose e il mondo. Le cose conosciute, cioè le intuizioni delle cose, sono diverse dall’intuizione di se stesso, ma sono pur sempre in lui in quanto soggetto conoscente.

Ciò significa che le cose pensate possono essere in se stesse, cioè al di fuori del soggetto conoscente, altro o anche altro; che sono componenti di un flusso universale il quale nel suo complesso ci sfugge. La fisica quantistica ne ha fermato delle immagini prima ignote. Tuttavia l’iniziatore del quantismo, Max Planck, ha sostenuto contro il positivismo (che non riconosce altra realtà al di fuori delle esperienze sensibili dei singoli scienziati) l’esistenza di un mondo esterno indipendente dall’uomo, un vero e proprio assoluto, su cui le nostre esperienze sensibili ci forniscono solo informazioni. Interessante però notare anche, come limite all’importanza primaria che la scienza attribuisce alla materia, ciò che ne pensa Plotino. Per lui la materia non ha realtà sostanziale, è non-essere, “pura aspirazione all’esistenza”, è il principio del divenire e delle apparenze, è, come antipode all’Uno ineffabile per eccesso di potenza e di splendore, tenebra, cioè mancanza di luce, indefinibile per difetto di determinazioni.

Dunque noi conosciamo le cose e il mondo molto  parzialmente e soltanto a modo nostro, cioè soltanto per quello che serve e interessa al conatus suum esse servandi, allo sforzo di conservare il nostro essere, che noi tutti siamo secondo la definizione dell’uomo data da Spinoza. In genere si pensa all’intelletto isolatamente come organo dell’uomo che si identifica col cervello, separatamente dal resto dell’organismo; ma in realtà quest’organo è semplicemente l’equivalente fisico dell’uomo in quanto pensiero, un pensiero che, senza saperlo, in primo luogo pensa se stesso, come ogni amore è, senza saperlo, in primo luogo amore di se stesso; è immediatamente un autopensiero.

Ma in quanto il pensiero si può pensare solo come organismo, vale per esso il principio di massima determinazione, simmetrico e opposto al principio di indeterminazione di Heisenberg, ribaltato dal minimo al massimo. Oltre l’organicità, cioè, l’uomo non può andare, nella sua concezione della realtà, e deve tradurre in essa ogni meccanicità. Se si prende per esempio la relatività di Einstein, si vede che l’attiva interdipendenza che egli stabilisce tra le varianti dell’universo prese in considerazione: la materia, l’energia, la velocità, la massa, il tempo, lo spazio ecc., non è solo un rapporto di relatività, come egli afferma, ma un rapporto di organicità. Perché i mutamenti dell’una si ripercuotono sulle altre secondo un principio organico. Si è visto cosa succede quando la massa diventa energia, secondo la famosa equazione E = mc². Succede che un grammo di materia sviluppi un’energia pari all’esplosione di 20.000 kg di tritolo. Se ci riferiamo al nostro organismo, non possiamo dire che fegato, stomaco, cuore, polmoni, intestino siano semplicemente relativi gli uni agli altri: essi sono collegati tra loro in modo organico e funzionale, e l’uno senza gli altri non si può pensare. Questo è facile da capire per il nostro organismo, perché in esso vediamo le parti che funzionano per il tutto. Non lo è affatto quando si tratta del vasto mondo, dove vediamo le parti, ma non vediamo il tutto, che però, secondo filosofi e scienziati, non può essere pensato se non come organismo.

Nietzsche si oppone violentemente, nella Gaia scienza, aforisma 109, a questa concezione del mondo come organismo:

Guardiamoci bene dal pensare che il mondo sia un essere vivente. Da che parte si estenderebbe? Di che cosa si nutrirebbe? Come potrebbe crescere ed accrescersi? Noi sappiamo già a stento che cosa sia l’organico, e dovremmo reinterpretare ciò che è indicibilmente tardo, raro, casuale, e che percepiamo solo sulla crosta terrestre, come essenziale, universale, eterno, alla maniera di coloro che chiamano l’universo un organismo? Questo mi disgusta”.

A parte che, come abbiamo detto, tutto è organico, anche l’inorganico, tra “coloro che chiamano l’universo un organismo” c’è Spinoza, che Nietzsche conobbe tardivamente, “meravigliato ed estasiato” per l’accordo con lui su cinque punti fondamentali: negazione del libero arbitrio, del finalismo, dell’ordinamento morale del mondo, dell’altruismo e del male. Giubilò egli dunque, però, senza probabilmente mai leggere tutta l’Etica (il sistema più breve e potente della filosofia moderna), lo avversò, come già aveva fatto il suo “unico e  grande maestro” Schopenhauer, stroncando il principio di conservazione, pilastro del sistema spinoziano. 

Ma sia lui, sia Schopenhauer, non avevano considerato che Spinoza si era espresso, per indicare il persistere della sostanza coi suoi infiniti attributi, semplicemente con la terminologia del suo tempo, e che il principio di conservazione, se si considera tutto il suo pensiero e non ci si ferma a singole parole, non andava interpretato (anche Dio come causa sui, per cui fu anche attaccato) in senso meccanico. Comunque non solo Spinoza ha concepito il mondo come organismo, ma anche Campanella e altri filosofi ancora, e persino Einstein, in base a quanto sopra detto; ma soprattutto Nietzsche, a cui Platone stava fortemente antipatico, non aveva considerato che già costui, più due millenni prima di lui, aveva concepito, nel Timeo, il mondo come organismo e aveva risposto, prima che egli le facesse, puntualmente alle sue domande.

Se il mondo, la realtà, è un organismo, nella realtà o anche solo nella nostra rappresentazione, allora anche la storia è mossa da forze organiche, perché essa è il bordo interno della realtà che circonda l’uomo. Quindi, in grande, la storia va indagata in base a queste forze e spinte di natura organica, che connettono e spiegano i fatti.  

l’indagine storica che ne prescinda, che parta da certi fatti ed arrivi ad altri fatti, non basta da sola per far capire, per esempio, l’immenso scatafascio consumatosi in Europa e nel mondo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento. Solo considerando anche le civiltà come organismi, secondo la grande intuizione di Oswald Spengler, si possono capire le cause fondamentali delle due più grandi catastrofi della storia umana. I fatti sono innumerevoli, tutti effetti di innumerevoli cause, e cominciare da alcuni di essi e finire con altri, senza chiamare in soccorso la filosofia e in questo caso anche la biologia, è frutto di scelte arbitrarie.

Un organismo è un’unità in cui il principio vitale – una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile – stringe  insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in pro di un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo con le cellule che lo compongono, dotate ciascuna di vita propria. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e fine. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente dell’organismo, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività), è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, essa allenta la sua presa, mentre aumenta corrispondentemente la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante si scolla, cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.

In quanto soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte, come la specie stessa, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna, con relativa indipendenza dalle circostanze storiche, da cui sono condizionate ma non determinate. Detto incidentalmente, questa è anche la ragione per la quale le religioni, le ideologie ecc. sono, nonostante ogni impennata teorica, sempre riportate nella pratica al comune livello umano, cioè sono sempre filtrate dall’“eterna” ed elementare, piuttosto rozza natura delle masse umane, per cui, anche se predicano, come il cristianesimo, la carità estesa agli stessi nemici, non si astengono in pratica dal perseguire la potenza e dal perseguitare i nemici, nel caso del cristianesimo con crociate, guerre di religione, inquisizione e tutti gli altri mezzi possibili e immaginabili. È così che sia i fascisti sia i comunisti, inalberanti bandiere opposte, hanno fatto uso nella seconda guerra mondiale degli stessi mezzi crudeli e violenti.

Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma poi integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero, con le loro battaglie laicizzanti combattute per arginare lo strapotere della Chiesa invecchiata. Le Kulturen durano qualche millennio: hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia; in vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, Zivilisationen, in italiano, civiltà stramature, che brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione, e ciò non per colpe e vizi sopravvenuti, come si crede, ma per compiutezza e sazietà, confectae aetate. Così l’impero romano e così la Chiesa cattolica, in cui la corruzione fu effetto e non causa. In autunno le foglie perdono il verde sano e robusto dell’estate e si accendono di tutti i colori:  così consumano l’ultimo residuo della loro vitalità.

Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo. Nell’alta marea che ne seguì, Hegel, e per lui l’Europa, raggiunse, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi conferendo senso divino (cioè umano), alla storia, diede la carica ai tedeschi, come “parte razionale dell’Europa”. L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’’apporto degli altri due idealisti romantici, Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era, nella Klassik, contemporaneo, amico e protetto di Goethe, di cui però tradì il messaggio di misura (il genio è inviato spesso come correzione del popolo. Nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen-Uebermut, la superbia dei titani). Per Goethe “classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato”. Ma Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito (cioè l’uomo) contro la natura, da lui disprezzata. Goethe diceva che senza la morale lui non era niente, Hegel negò la morale ed esaltò l’etica, per cui intendeva soprattutto il regime prussiano. 

          Ma quando si arriva al vertice è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta esplose, proprio nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani-hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer (in Danimarca con Kierkegaard). La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche. Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi. Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nella sua ribellione alla Chiesa e alla latinità, Nietzsche abbatté sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni. Non gli rimase che la natura col suo vitalismo selvaggio. Negò la verità, la moralità, la responsabilità, volle rinaturalizzare l’uomo, ripulire il “terribile testo homo-natura” delle “interpretazioni vanitose e presuntuose scarabocchiate su di esso”. Affermò la necessità di una casta aristocratica barbara e feroce, divisa dal popolo da un fossato, la necessità della schiavitù per l’edificazione di ogni civiltà superiore, e della sopraffazione, con l’incorporazione e lo sfruttamento dei deboli da parte dei forti, come legge fondamentale della vita. In tal modo diede corpo spirituale alla crisi, che era una crisi di autodistruzione, cresciuta fin lì sordamente, irradiandosi in tutte le manifestazioni umane: politica, religione, morale, arte, diritto, economia, scienza ecc.; la legittimò e l’accelerò.

In seguito alla sua accelerazione, si verificò allora nel corpus europeo già robusto e unitario, la polarizzazione delle forze maggiori che la costituivano, quella conservatrice, fascismo e nazismo, che  guardava ai valori “aristocratici” bellicosi del passato e si sentiva chiamata a combatterne la disgregazione, e quella rivoluzionaria, “democratica”, pacifista, il comunismo, che guardava al futuro e mirava a una palingenesi dell’umanità. Col progressivo acutizzarsi del contrasto, lo scontro divenne inevitabile. Ci fu quella che Ernst Nolte ha chiamato la guerra civile europea, ma che fu in tutto e per tutto una guerra mondiale, in sostanza l’estremo tentativo dell’Europa di ripristinare il suo traballante primato, a destra, e lo scatto in avanti verso l’internazionalismo e verso il futuro, verso “la fine della storia” (delle lotte e delle guerre) a sinistra, poi rivelatosi utopico, disastroso e autodistruttivo.

Ma alla fine della seconda guerra mondiale, terminata con la sconfitta delle forze conservatrici (il padre che vuole continuare a imporre la sua potestà ai figli diventati adulti è destinato ad essere scalzato se non, come vuole Freud, ucciso), l’Europa perse definitivamente il primato che, come organismo multicefalo, aveva fino ad allora esercitato nel mondo, primato che appunto fascismo e nazismo avevano, oggettivamente e sotto nomi attuali, cercato di puntellare e rilanciare. D’altra parte la rivoluzione comunista, trascinata dalla logica “umana, fin troppo umana” di cui sopra alla dittatura più feroce e al governo autocratico del partito, si avviò, nonostante i suoi alti ideali, al fallimento e alla dissoluzione nell’implosione finale dell’Unione Sovietica. “Prima del temporale si alza per l’ultima volta con violenza la polvere, che presto sparirà a lungo”, ha detto Goethe.

Sempre nell’ambito della visione organicistica, gli evi, nostri avi: i tre che da sempre costituiscono soprattutto la nostra storia: evo antico, medioevo ed evo moderno, non sono tre laghi separati con arcipelaghi di personaggi ed eventi che fanno la storia di ciascuno, come comunemente si pensa, ma un fiume unico, irruente, che si getta dall’uno nell’altro per avvenuta realizzazione ed esaurimento delle potenzialità di ciascuno. Per esempio la civiltà greco-romana, con la sua scala di valori “aristocratici” (individuo, coraggio, avventura, patria e suolo, gara, guerra, conquista, vendetta), fu rovesciata quando, per sopravvenuta sterilità e vecchiaia, si corruppe, dal cristianesimo, con la sua scala di valori “democratici” (uguaglianza, dignità e sacertà della persona, solidarietà, pace, perdono, carità anche per il nemico, universalismo), e il medioevo, per le stesse ragioni, fu infine rovesciato dalla modernità, con la sostituzione del Sacro Romano Impero da parte delle nazioni europee indipendenti e della religione con la laicità, di Dio con la natura e della teologia con la filosofia. Si realizzava così la triade hegeliana di natura (tesi), spirito (antitesi) e religiosità laica (sintesi).