Nietzsche incompreso

Esistono su Nietzsche innumerevoli  analisi. Non esiste una sintesi. Le analisi, che si credono sintesi, sono facili: si prendono alcuni elementi dell’Autore e li si fa giostrare. Per esempio si prende dalla Nascita della tragedia la coppia di concetti apollineo-dionisiaco e li si sviluppa fino a farli diventare principi universali e supremi della realtà, come fa Giorgio Colli. La sintesi è difficile, perché ogni grandezza è grandezza storica e quindi richiede la comprensione della sua posizione e funzione nella sua epoca, e questo può richiedere a sua volta la comprensione del senso di più secoli di storia quando, come nel caso di Nietzsche, il grande è l’approdo finale di un processo multisecolare. Insomma la sintesi è quella che per gli scrittori si chiama  sistemazione critica, è un ritratto che vuol essere definitivo, una sistemazione ne varietur.

Per il fatto che di Nietzsche non esiste una sintesi, Nietzsche è ancora un enigma. Egli è infatti un pensatore così ricco e variegato che richiede per la sua interpretazione, oltre a particolari doti personali che vanno fino a una certa affinità,  un lunghissimo metabolismo. Le rilevazioni nelle fasi intermedie della “digestione” raccolgono elementi spuri insieme ad elementi puri, cioè anche quelli che nel prosieguo della digestione sono destinati ad essere espulsi. Solo quando il metabolismo è completo i succhi puri diffondono nel sangue la loro forza vivificante. Io sono attivo su Nietzsche dall’inizio degli anni Sessanta, ma solo molto tardi ho capito di lui le cose essenziali, cioè quando, avendolo a poco a poco completamente introiettato, in particolare con la traduzione di tutte le sue opere, la sua essenza si è riformata automaticamente in me emergendo nella sua unità e complessità. Bisogna dunque setacciare una montagna di sabbia, per trovare infine le pepite dell’essenza.

Giambattista Vico dice che l’uomo non può conoscere la natura, che è fatta da Dio, ma può conoscere la storia, che è fatta dall’uomo. D’altro lato, però, Hegel afferma che la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri e Goethe afferma che l’individuo è un organo del suo secolo che agisce per lo più inconsapevolmente. Ora, queste due affermazioni, che cosa significano se non che 1) il soggetto non è la filosofia, ma il proprio tempo, da cui la filosofia è forgiata, e 2) il soggetto non è l’individuo, ma il secolo, come organismo di cui l’individuo è un organo? Ma allora non è l’uomo che fa la storia, come dice Vico, bensì è la storia che fa l’uomo. Del resto, anche più in generale, noi pensiamo la realtà, di cui la storia è il bordo interno, come oggetto del nostro pensiero, quasi come un caput mortuum. Invece è il nostro pensiero che è l’oggetto della realtà, come soggetto attivo. È come se la foglia ponesse sé come soggetto e l’albero come suo oggetto, rovesciando l’ordine naturale. Noi non controlliamo neanche i nostri pensieri; ci limitiamo a ricevere quelli che vengono, anche quelli brutti che non vorremmo pensare. Si tratta di fare, insomma, un’inversione copernicana.

Quale la conseguenza di ciò per quanto riguarda Nietzsche? Nietzsche si è vantato di essere il pensatore più indipendente e più inattuale della sua epoca, e questo è vero rispetto alla cultura del suo tempo, per esempio rispetto a un David Strauss; ma è invece, a sua insaputa, il più dipendente e il più attuale, essendo una inconsapevole incarnazione della crisi europea. Siamo nel caso esemplificato da Spinoza: l’uomo si crede libero e indipendente perché può fare quello che vuole ma ignora le cause che lo spingono a volere quello che vuole e non altro. L’uomo cioè non sa che non può volere qualsiasi cosa ma solo quello che la sua natura, mediatrice delle forze storiche, gli fa volere. Dunque Nietzsche non è un’entelechia indipendente dalla storia, che nella storia semplicemente si realizza, come sostiene Giorgio Colli, ma va interpretato proprio sul piano storico, dove è, come qualcuno ha detto, “un fenomeno epocale mitico-terrificante”. Per il fatto di averlo interpretato invece nei ristretti recinti della storia della filosofia, gli interpreti se ne sono preclusa la comprensione essenziale. Sono andati dietro a quello che Nietzsche ha detto, invece che a quello che Nietzsche ha fatto, a quella che i tedeschi chiamano la Wirkungsgeschichte, e quello che Nietzsche ha fatto è diverso da quello che Nietzsche ha detto.

Che cosa ha fatto Nietzsche? Da un lato il genio Nietzsche ha trasfigurato, nella visione dionisiaca, il declino della civiltà europea in poesia e filosofia tragica; dall’altro ha incorporato la crisi, ch era una crisi di autodistruzione, conferendole, col suo pensiero, corpo spirituale, legittimandola e accelerandola. Questo è quello che fa sempre il genio, che non rispecchia ma integra il processo storico. Il genio è infatti l’estrema risorsa nelle crisi dell’umanità, è il rimedio che cresce dove cresce il male, secondo il detto poetico di Hölderlin. Noi facciamo tanta retorica spiritualistica sul genio, ma esso non è altro che l’adattamento all’ambiente, beninteso all’ambiente storico e non a quello fisico degli animali: la pellicciona dell’orso polare tra i ghiacci e i mari del Polo, la lingua lunga e viscosa del formichiere, per penetrare nelle tane delle formiche, il collo lungo della giraffa per arrivare all’alto fogliame degli alberi. Allo stesso modo, il genio è la capacità di adattamento dell’uomo al mutare delle circostanze storiche.

Gli interpreti di Nietzsche non hanno capito, come non aveva capito Nietzsche  stesso, che egli è tutto e solo attualità, che i problemi di cui si è occupato a proposito della Grecia arcaica sono fondamentalmente una trasposizione inconsapevole dei problemi della sua epoca, che dunque la Grecia è in sostanza un alibi; non hanno capito che la dottrina dell’eterno ritorno, di cui Nietzsche ha voluto fare una religione con se stesso come maestro, è stata da un lato la più grande gaffe che egli ha fatto, affermando un automatismo e una ripetizione che sono in contrasto con tutto il suo  pensiero e in particolare con la volontà di potenza, gaffe dovuta a un bisogno disperato di rimediare alle lacerazioni prodotte nella sua coscienza da una implacabile vocazione religiosa, che costituiva il suo genio profondo, dettava la legge del suo variegato itinerario creativo, dunque non libero (“Il futuro dà la legge al presente” l’ha detto egli stesso), e non gli dava tregua, la soluzione rimediata a un problema che ha costituito la spina dorsale di tutta l’età moderna e che egli ha risolto, come approdo finale di un processo storico multisecolare, con la fondazione della religione laica (non di quella dionisiaca), avviata soprattutto da Giordano Bruno, Spinoza e Feuerbach, valorizzando la vita caduca contro l’immortalità, l’individuo empirico contro la sostanza, il sostrato e l’essenza, il corpo contro l’anima, lo sterminato, eterno aldiqua contro il fantasticato e fantasmagorico aldilà, che è in realtà solo un angolino dell’aldiqua, la terra che “ha un cuore d’oro”, contro il cielo pascalianamente vuoto di Dio, la dignità e l’orgoglio del lottatore votato alla fine, ma che afferma la sua identità di origine divina, la fede in se stessi, il coraggio e la lotta, contro il servilismo a un presunto Dio sordo a tutti i richiami umani.